Sul volto di ogni ufficiale sono evidenti le tracce della più profonda costernazione. Si ha la sensazione di essere abbandonati a noi stessi nel caos più indistricabile: ci sentiamo senza patria in seguito al disgustoso tradimento del re che ha messo in subbuglio l’Italia – non abbiamo elementi per giudicare tale atto che quindi ci appare nella sua esteriorità più grossolana –, ma non siamo in grado di dare una adesione incondizionata alla causa tedesca e di farne assumere i rischi al reparto. D’altra parte pensiamo con non minor apprensione ai rischi di una prigionia con trattamento da traditori e, per quanto innocentissimi, ci sentiamo giustamente soggetti ad ogni rappresaglia.
La notte tra il 9 ed il 10 la passo totalmente in bianco, fra i più neri pensieri. Ognuno ha nel cuore quel tanto di pena e di preoccupazione che basta per portare un uomo alla disperazione. Penso a mia moglie ed a mio figlio come a due esseri infinitamente lontani – quasi irraggiungibili. Immagino la pena loro e quella di mia mamma.
Il 10 settembre il Colonnello Zorio, l’unico superiore che ci sia rimasto vicino, fa adunare il Battaglione per accomiatarsi. Tiene poi rapporto agli ufficiali e ci raccomanda di assistere quanto più possibile i soldati restando a loro vicini. Non so ancora esattamente quali alternative ci porranno i tedeschi ma credo che la mia decisione sia presa in questo momento: seguirò la sorte del mio plotone qualunque strada esso prenda. Il Colonnello Zorio si limita a poche parole perché le lacrime gli impediscono di continuare; ci saluta e si mette a disposizione dei tedeschi che l’hanno accompagnato. I soldati mi assediano con i loro sguardi interrogatori – sono avviliti quanto me e forse ancora più timorosi. Io non sono in condizioni di poterli confortare e mi ritiro nella mia tenda. Nella tenda accanto Brunello a stento soffoca i singhiozzi ed io gli invidio questo pianto ristoratore.