Il treno prosegue e la seconda notte di suplizio incomincia identica alla precedente. È circa mezzanotte quando son svegliato da spruzzi gelidi sul volto. Si è scatenata una tremenda bufera di neve; il vento copre con i sui fischi il fragore del treno e spruzza neve su di noi attraverso ogni fessura. Mi tiro sulla testa la coperta che presto è inzuppata e attendo pazientemente il mattino. All’alba siamo a Francoforte sull’Oder. Durante la fermata sale un graduato tedesco che ci conta, come ogni giorno, e che, dopo averci fatto ritirare in mezzo vagone controlla accuratamente lo stato delle tavole. Evidentemente la possibilità di una nostra fuga preoccupa non poco i nostri ex camerati – ma dovrebbero pur pensare che per noi una fuga è cosa impossibile dato che un luogo tranquillo per noi non esiste in tutto il mondo. Comunque ci sorvegliano a perfetto tenore di regolamento e proseguiamo lentamente poiché la zona è in allarme aereo. Durante le soste si sentono tonfi lontani e nutrite scariche di mitragliere antiaeree.
Transitiamo da Engelsberg che è quasi completamente distrutta dai bombardamenti e, verso mezzogiorno, siamo in vista di Berlino. Durante tutto il percorso del treno attorno alla periferia della Città, incollati ai pertugi praticati nelle pareti del vagone da prigionieri precedentemente trasportati, osserviamo i disastri prodotti dai bombardamenti. Sono quartieri immensi completamente distrutti che si presentano al nostro occhio; distese che sembran senza fine di case ischeletrite, di tetti scoperchiati, di fabbriche ridotte ad un mucchio di macerie. Fra le molte, vediamo le rovine della Siemens e della Krupp.
Durante una delle frequenti soste vediamo accanto al treno un gruppo di operai italiani. Chiediamo loro come stanno ed essi ci rispondono con l’espressivo gesto di chi tira la cinghia dei pantaloni. La traversata della città dura un paio di ore e, all’estrema periferia occidentale il vagone viene aperto. Dei prigionieri italiani, comandati da un feroce sottufficiale, scaricano la cassa maleolente, poi ci vien dato il solito terzo di pagnotta, il solito grasso, ed una buona minestra di pasta bianca. All’atto della distribuzione della minestra, secondo il solito, la massa famelica dei meridionali si accalca urlando e gesticolando attorno alla marmitta: il sergente tedesco scodella 38 razioni e porta via il resto. Io e Scarpa siamo rimasti senza perché c’è stato chi ha presa anche la nostra parte. Naturalmente do sfogo al mio disappunto vomitando le più violente ingiurie sulla razza dei terroni e sui loro ignobili sistemi e, siccome nessuno al solito reagisce, tutto finisce così. Ci dividiamo in 4 la minestra di Manni e Segantini e consumiamo il pasto. Anche per il 25 marzo il pericolo della fame è scomparso e questo è già molto quando si pensa alle precedenti esperienze.
Il viaggio prosegue ed il motivo dominante le discussioni è Berlino e le sue distruzioni. Io penso alla analoga sorte capitata alla mia città e rabbrividisco al pensiero di trovarla così mal ridotta un giorno. Ci sistemiamo per la terza notte di viaggio che passa in modo analogo alle precedenti. Al mattino del 26 ci troviamo a Rheine ove ci vien comunicato che alle 9 il viaggio sarà finito. Contemporaneamente ci vien dato il pane ed il grasso. Alle 10 giungiamo a Meppen. Sappiamo già qualcosa circa questa località circondata da parecchi Lager per via dei racconti di chi già c’è stato. Sappiamo che i campi sono a baracche e che, nelle precedenti soste, vi hanno mangiato male e poco; comunque, rallegrato dal fatto che in tre giorni ci siamo fatti un viaggio dalla Polonia all’Olanda che poteva durarne sei o sette, non mi preoccupo eccessivamente per quel che ci aspetta.