Il 25 ci vien comunicato che partiremo l’indomani. Facciamo gli ultimi preparativi, cuociamo gli ultimi risotti a furia di tavolette e cassette abbandonate, Molteni mangia il gatto che circolava per le baracche, e il 26 mattina affardello lo zaino che risulta pesante e enorme. A malincuore abbandono la mia valigia che pensavo di trascinarmi al seguito ma che, anche vuota, è troppo pesante ed ingombrante. Si passa una sommaria rivista al bagaglio e, novità istituita a seguito di alcune fughe avvenute nel precedente trasporto, ci vengon tolte le scarpe in soprannumero con la promessa che ci verranno restituite a destinazione. Devo affrettarmi ad infilarmi gli stivali e rassegnarmi agli eventuali inconvenienti che essi comportano nelle lunghe marce.
Ci vien data la razione del giorno più due giornate di viveri a secco – carne in scatola e ½ kg. di pane. Mangiamo il rancio poi ci incamminiamo verso Lathen. Io cammino senza fatica e arriverò brillantemente fino in fondo – gambe e spalle nonostante tutto sono ancora buone, ma c’è chi compie miracoli di buona volontà per trascinarsi fino in fondo. Bene o male la colonna malinconica arriva alla stazione (12 km) e qui troviamo gli addetti ai pacchi, fra cui Colombo. Ci narrano fra l’altro di uno che, per aver tentata la fuga, è stato messo al muro bendato e poi rilasciato – i soliti scherzi di cattivo genere – e che il precedente trasporto è stato mitragliato – 30 feriti nostri e alcuni fra i soldati della scorta.
Dopo una breve attesa veniamo messi in ben 50 per vagone e, altra novità, ci vien detto che dovremo consegnare le scarpe che abbiamo ai piedi. Si protesta e infine l’ordine vien revocato. Quando nel vagone vengon messi a terra 50 zaini non rimane più posto, quindi ognuno di noi non può far altro che appollaiarsi sul proprio zaino. Ci vien data una latta per il groβabort e la porta vien sprangata. Sono circa le 4 – fino alle 8 staremo in stazione a sentire e risentire il segnale di allarme e di cessato allarme ed il rombo alto degli aerei inglesi, che ci accompagnerà durante tutta la notte. Durante le ultime ore del giorno cantiamo canzoni alpine per “farla passare” e infine tentiamo di dormire – vano tentativo nella scomoda posizione a cui siamo condannati. La notte pare eterna e, al mattino, verso le 10 arriviamo a Bremen Vorde ove, tra un allarme e l’altro, veniamo fatti scendere e incolonnati.
Altri 14 km ci attendono e le gambe sono indolenzite per la marcia già fatta e per la notte anche più massacrante; comunque, tra un allarme e l’altro, ci mettiamo in cammino e verso le 15 arriviamo alla nostra nuova sede fra le sentinelle che urlano per far camminare i più estenuati. Il 10 B è un campo vastissimo, ci sono sedicimila prigionieri di nazionalità diverse. Veniamo introdotti in un locale ove passiamo una affrettata rivista al bagaglio, quindi dopo aver sostato un’oretta sotto un acquazzone violento, entriamo bagnati e stanchi in quella che sarà la nostra nuova casa. È una bella baracca divisa in scomparti, che avendo funzionato da Cultur B., ha anche decorazioni sui muri, ma è completamente vuota – senza castelli senza tavoli, senza paglia e l’unico arredamento sarà costituito dai nostri zaini sistemati attorno alle pareti. Per dormire nient’altro che il duro pavimento – e su di esso ci stendiamo, appena vien scuro, ad ammaccarci le ossa.