Il 29 piove. Facciamo il bagno e quindi dell’ironia sulle nostre ossa; al solito circola la domanda: sarà l’ultimo? Ad ogni giorno la fame aumenta – diventa un’ossessione – la sofferenza fisica è sopportabile, ma la preoccupazione per la salute che se ne può andare per sempre è grande. Di pacchi non se ne sente più parlare. L’avanzata verso Wartsburg ha probabilmente chiuse le comunicazioni con l’Italia o le rende comunque inutilizzabili.
30 marzo – Venerdì Santo, continuano ad arrivare buone notizie sulla guerra, ma la fame è tanta che ognuno di noi preferirebbe qualche galletta. Ognuno si esaspera per gli allarmi che ritardano il rancio e bestemmia all’indirizzo di amici nemici e neutrali. L’occupazione favorita è quella di scrivere ricette specialmente di piatti caratteristici regionali e c’è chi lavora a questo da mattina a sera – mania d’affamati alla ricerca di tutto ciò che può rievocare un sapore o tener ferma l’attenzione su di un manicaretto.
31 marzo – Ieri l’allarme è iniziato alle 13, si è interrotto dalle 18 alle 20, ha continuato fin stamane alle 6, ha ripreso alle 8, è cessato alle 12. Fortunatamente alla cucina è venuto ordine di far accompagnare le corvè delle baracche, così che le distribuzioni viveri, sia pure lentamente, si svolgono. Mi vien prospettata la possibilità di vendere ai francesi, o meglio ad un francese che Mara ha conosciuto in prigione, una gavetta: questo mi fa sperare in un guadagnino di sigarette per Pasqua – ma non concludo niente per via dell’irreperibilità dell’acquirente. Parrà impossibile in altri tempi, ma questa faccenda mi dà tanta ansia da tenermi sveglio per buona parte della notte.
1 aprile – Pasqua – seconda Pasqua di prigionia – raggruppando residui datici in meno negli ultimi 15 giorni e anticipandoci una differenza della prossima settimana i tedeschi ci danno quasi 2 etti di pane in più, cioè circa il doppio del solito. Inoltre prendo l’aggiunta di rancio d’orzo e tre razioni di patate (gr. 450) – il tutto mi permette di togliermi la fame. Al mattino il Giornale Parlato verte su temi pasquali pieni di retorica. Guareschi non interviene per indisposizione e così manca il numero più atteso. Nel pomeriggio si recitano “L’imbecille” e “L’uomo dal fiore in barca” di Pirandello; ma non riesco ad andarci. La sera giunge senza che ci sia stato allarme – e questo conferma una voce che quasi non osiamo confessarci e che circola insistente nel campo. La sera siamo con le orecchie tese e sentiamo solo un lontano preallarme.
La giornata di S.Angelo è buona: prendo dieci sigarette vendendo un paio di calze e sapone e con esse acquisto una razione di pane che passo ai francesi guadagnando altre due sigarette. È un commercio antipatico ma la fame è sempre più forte e bisogna darsi da fare. Nel pomeriggio vedo lo spettacolo, al teatro, quello perso ieri – i lavori sono molto bene recitati; in più ci sono delle fantasie d’operette suonate dalla scarsa orchestra. Ancora la giornata è passata senza allarmi – la tensione di molti è spasmodica – io mi trovo abbastanza calmo davanti agli eventi. Circolano anche notizie di iperboliche avanzate ma queste non possono avere fondamento poiché generalmente nei giorni di festa si hanno soltanto parti di fantasie e non indiscrezioni dall’esterno. Verso mezzanotte, mentre attendo il sonno che non vuol venire, suona un allarme che sfata tutte le fiabe.
Anche il 3, verso sera, un altro allarme, ma le notizie circolano ugualmente, sempre più impressionanti, per il campo. Il 4 passiamo tutta la mattinata in allarme ed io non mi muovo dal letto perché ho passato quasi tutta la notte in bianco. Ma non dormo – passo il tempo ad analizzare la mia fame. Un medico mi ha detto che esistono tre tipi di fame: quella gastrica, data dallo stomaco che, vuotatosi richiede cibo; quella psichica, data dal cervello che, cosciente di uno stato di denutrizione fa bramare il cibo e più ne fa temere la mancanza; quella organica, data da tutto l’organismo le cui cellule richiedono calore e protoplasma. Non è sbagliato quindi dire che la mia fame è tripla dopo quaranta giorni passati a acqua e rape e 200 gr di pane. Esamino il mio desiderio di cibo e scopro che ho tendenze decisamente vegetariane: appetisco più di tutto, forse perché si presta ad esser divorato a grandi soddisfacenti cucchiaiate, del minestrone denso e quasi freddo; seguono risotti, pasta al sugo, insalate di patate fagioli ed altre verdure con pezzi di uovo e di carne, stufati con poca carne e molte patate o fagioli, scodelloni di caffè latte cioccolata crema maionese ecc. in cui intingere montagne di pane. La carne intesa come bollito arrosto bistecche costolette ecc. mi attrae meno. I dolci mi attraggono solo come complemento al pane. L’olio è il condimento che metterei ovunque. Il burro mi interessa solo come pietanza. Ciò che richiede lavoro di spolpatura – pollo ecc. – o uso abile di posate – pesce ossibuchi asparagi ecc. – vien ultimo nella scala dei miei desideri. Non sento, se non in poche ore del giorno subito dopo la digestione, la fame come sofferenza ma essa incombe in ogni momento come necessità alla cui soddisfazione tutto l’organismo è proteso. La paura della sua immanenza mi metterebbe in grado di sfidare qualsiasi pericolo per soddisfarla – il che significa che la fame la si teme più della stessa morte dato che essa, come pericolo, non aumenterebbe in me nessun eroismo. Soltanto la persuasione che non v’è attorno nulla da rubare credo trattenga molti dal trasformarsi in “topi di lager” ed a mia volta, contrariamente a quanto ho sempre pensato, sarei disposto a concedere molte attenuanti a chi, in queste condizioni, rubasse.
Molti in camerata passano intere giornate intenti nel ricopiare centinaia e centinaia di ricette – comincio a capirli e forse, se avessi carta li imiterei. Intanto mi limito a cacciarmi bene in testa il pasticcio di frittata e spaghetti, semplice o doppio con ragù in mezzo, poiché lo trovo veramente notevole come ritrovato culinario.