Non sto bene; passo la settimana dal 22 al 29 digiunando quasi totalmente e così perdo le forze. Il 29 mi sveglio e radendomi mi accorgo di essere color risotto alla milanese. Manni mi sollecita una visita del Capitano Zappa e il 27 sera mi ricoverano all’infermeria per ittero–catarrale. La sovrabbondanza di grassi, sull’organismo mal abituato dai precedenti digiuni, ha avuto le sue conseguenze – ed eccomi trasformato in fegatoso, costretto in infermeria a far progetti di cure a Chianciano in compagnia dello zio Grassi.
30 luglio – Evidentemente dovevo provare anche questo prima di finirla con la naja. Ma ne avrei abbastanza delle 24 ore qui passate. C’è una certa tranquillità e ci sono i lettini con le molle. C’è burro anziché margarina e c’è ½ litro di latte al giorno. Ma tutto questo non compensa la noia. Sono fra due siciliani, di cui uno è il campione di baffi e peli del campo, assai scarsamente interessanti. C’è un altro fegatoso e molti con bubboni vari – fortunatamente tutti i tubercolotici sono stati da poco spediti a Belsen e da qui, pare, in Svezia. Leggo, tutto d’un fiato, Mastro don Gesualdo di Verga.
La sera del 31 giunge anche più lentamente perché non ho un libro ad aiutarmi a passare il tempo. In compenso mi ambiento con i colleghi. C’è un anziano e grosso capuccino che passa il suo tempo fra gli ammalati e che ci somministra una Messa ogni mattina e un Rosario ogni sera. Mi guarda brutto perché non partecipo alle preghiere. Sono sempre più giallo – digerisco a stento – mi danno parecchio latte e del semolino di riso oltre a varie pillole. E così continuo fino al 3 agosto; di tanto in tanto viene qualche amico a trovarmi; Pluto mi dà “Dal centro della Terra alla Stratosfera” e mi abituo ai colleghi ed alla vita tranquilla.
Il 3 agosto, venerdì, alla mattina, Massari mi comunica di essere in procinto di andarsene con altri Alessandrini. Il suo piano è abbastanza ben congegnato e penso possa riuscire. Gli affido un biglietto per Renata. È appena uscito quando mi comunicano che devo partire immediatamente per l’ospedale di Bombliz. Tento di reagire ma il Capitano Zappa mi convince con poche parole ad eseguire. Raccolgo in gran furia il mio bagaglio, saluto tutti rapidamente e aiutato da Manni e Armiento, carico sacco sacchetti e me stesso quanto mai stordito sull’autoambulanza. Arriviamo all’Ospedale alle 13 e qui mi assegnano alla 7/87. È una camera ordinata che ospita 5 pleuritici e la prima mia impressione è più che penosa. A stento riesco a convincermi ed a rassegnarmi a vivere in tale ambiente. Passo tutto il pomeriggio su di una panchina fuori in attesa che mi preparino il posto, ma tutti se ne fregano e a sera mi decido ad usare i miei lerci effetti latterecci piuttosto che quelli lasciati nel letto dal mio predecessore.
Le baracche sono in realtà casette in muratura, già abitazioni di operai della vicina polveriera, con comodi lavatoi e WC – Oh che bello tirare la catena dopo tanto! Sistemo la mia roba e alle 10 infilo una dormita fino alla mattina successiva. Il 4 mattina mi visita il medico. Conferma quanto già so circa il fegato e trova sano tutto il resto. Regime bianco, purghetta quotidiana e promessa di iniezioni. Mi rendo conto del funzionamento dell’Ospedale ove oltre 300 italiani, in gran parte tubercolotici, vi sono russi polacchi e balcanici vari. Ci sono parvenze di vita allegra – cinema e ballo – e donne d’ogni nazionalità che circolano per scopi vari liberamente. C’è un progetto di organizzazione che non viene eseguito regolarmente per la cattiva volontà di infermieri e personale vario; ci sono delle ragazze tedesche che dovrebbero provvedere alla pulizia ma che in realtà pensano agli affari loro nelle camere ove hanno possibilità di farne e trascurano le altre.
Tutti vanno e vengono liberamente; la cura della salute è esclusivamente affidata al buon senso degli ammalati. C’è un bellissimo impianto di docce che funziona in continuità e del quale uso ampiamente. I miei compagni di camera sono ricoverati da oltre 4 mesi e sono piuttosto squilibrati – più o meno – per gli alti e bassi del loro male. Quattro fanno interminabili partite a scopa e l’altro passa il suo tempo a pulire con uno straccetto l’armadio, la seggiola, il letto; poi spazzola i pantaloni e le scarpe; poi ricomincia da capo. Racconto loro le novità di Wietzendorf d’onde pure essi provengono e cerco di intavolare qualche chiacchierata per passare il tempo; ma ogni tentativo naufraga nella atmosfera di abulia di rassegnazione, di delusione che li ha tutti impregnati.
Decido che mi è indispensabile trovare qualcosa da fare per non cadere nello stesso stato – mi preoccupa la possibilità di esser venuto per curarmi il fegato e di ripartire con qualcosa d’altro di ammalato, sia pure la testa. Il 5 mi fanno un’endovenosa di glucosio, un bidoncino di roba. Nello scoramento di questi primi giorni mi è di grande conforto il ritrovare Poidomani che è qui in qualità di medico e se la passa magnificamente! Sotto ogni riguardo mi dà da leggere e passo con lui ore amene discorrendo dei tempi passati – anche la sua odissea non è stata allegra anche se meno dura della nostra.